IL PICCOLO REGNO
Wu Ming 4
Bompiani, 2016
Accade sempre d’estate, il passaggio. E insieme al passaggio – dall’inconsapevolezza dell’infanzia alla coscienza che “si è al mondo”, e questo esserci si specchia in chi ci accompagna in quell’attraversamento – in certe fatidiche estati si fissano i ricordi. Alcuni sono destinati a rimanere segreti finché arriva il tempo di guardare indietro e di raccontare.
Ne “Il corpo”, forse il più noto dei racconti contenuti in Stagioni diverse di Stephen King, c’è una frase che illumina tutta la sua poetica, e non solo la sua:
“Le cose più importanti sono le più difficili da dire. Sono quelle di cui ci si vergogna, poiché le parole le immiseriscono – le parole rimpiccioliscono cose che finché erano nella vostra testa sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando vengono portate fuori. Ma è più che questo, vero? Le cose più importanti giacciono troppo vicine al punto dov’è sepolto il vostro cuore segreto, come segnali lasciati per ritrovare un tesoro che i vostri nemici sarebbero felicissimi di portare via. E potreste fare rivelazioni che vi costano per poi scoprire che la gente vi guarda strano, senza capire affatto quello che avete detto, senza capire perché vi sembrava tanto importante da piangere quasi mentre lo dicevate. Questa è la cosa peggiore, secondo me. Quando il segreto rimane chiuso dentro non per mancanza di uno che lo racconti ma per mancanza di un orecchio che sappia ascoltare”.
Alle spalle de “Il piccolo regno-Una storia d’estate” di Wu Ming 4 c’è senz’altro quel racconto, che è un po’ il riferimento obbligato di chi racconta il famigerato passaggio, e ci sono i segreti che infine vanno tirati fuori.
Ma c’è molto altro, e di non troppo frequente, secondo me, nella letteratura che si rivolge ai più giovani: ed è, per cominciare, una doppia voce, che riproduce quella di chi ha dieci anni al momento della storia (e della lettura) e insieme si proietta in avanti, in quella che “diventerà” la voce degli ex bambini una volta entrati in un altro regno, quello della Gente Alta, che l’infanzia può solo osservare, ricordare, raccontare.
C’è altro, ovviamente. Anzitutto, il tempo e il luogo: l’Inghilterra degli anni Trenta, una famiglia che sposa il fabianesimo e che quindi guarda al mondo con la convinzione dell’idillio. C’è l’incontro-scontro con pensieri altri e dunque con coetanei altri (i bulletti, inevitabili, ma meno pericolosi degli inquietanti figli dei vicini di casa), ci sono le lingue segrete degli animali e la trasfigurazione fiabesca di quel che non si conosce come reale (il mugnaio burbero che diventa un orco). Ci sono i reduci dell’avventura, come Ned, che si può immaginare come un cavaliere perché conosce cosa sia la paura (e altri non è, il nostro cavaliere, se non Lawrence d’Arabia, già in Stella del mattino di Wu Ming 4). C’è Colui Che Viene da Fuori, e che dunque porta scompiglio, ed è un fuggitivo politico, Billy. E c’è Colui Che Viene dal Mondo dei Morti: un fantasma, ma non visibile a tutti. Uno Spettro dei Tumuli, in effetti, perché è dopo la violazione della sua sepoltura che si manifesta alla voce narrante, perché, come Tolkien insegna, certi spettri sono gelosi, e chiedono vite in cambio di quella che è stato loro tolta. E ci sono, ancora, Coloro Che Stanno Fra Due Mondi, i due vecchi archeologi che forse sono qualcosa di più, e che sicuramente sanno più della comune Gente Alta.
Quel che fa la differenza – e risponde implicitamente ai molti interrogativi su cosa sia o meno un buon libro – è, insieme alla storia, la voce. Appunto. Vanno sempre insieme, la seconda non si scarnifica per ammiccare a chi legge, anche se giovanissimo, la prima non si sacrifica a uno stile. Non è frequente. E’ prezioso. Tutto (ed è molto) qui.
(recensione a cura di Loredana Lipperini tratta dal suo blog, http://loredanalipperini.blog.kataweb.it/)