URLARE NON SERVE A NULLA
Daniele Novara
Rizzoli, 2014

(intervista realizzata da Veronica Mazza per D.repubblica.it)

A tutti è capitato. Tra lo stress e la mancanza di tempo, succede di alzare la voce con i propri figli. Esasperati dai capricci di bimbi “tirannici” o di adolescenti perennemente “contro”, nel tentativo di farsi dare credito, si assumono comportamenti aggressivi e impositivi, che non generano risoluzione ma solo frustrazione. A spiegarlo e a proporre strategie più efficaci per farsi comprendere dai propri figli in modo costruttivo, aiutandoli a diventare adulti maturi e autonomi, è il nuovo libro “Urlare non serve a nulla” (edizioni BUR). In libreria da ottobre, è scritto da Daniele Novara (www.cppp.it), uno dei maggiori pedagogisti italiani e autore del bestseller “Litigare fa bene”. Lo abbiamo intervistato per capire come gestire i conflitti con i figli, per farsi ascoltare sul serio e guidarli al meglio nella loro crescita.

Nel suo libro afferma che i conflitti con i figli oggigiorno sono aumentati per motivi culturali. Quali sono quelli che li hanno incrementati?
Sì, in un certo senso sono aumentati anche per motivi culturali. Prima, fino agli anni Settanta del secolo scorso non c’era molto spazio per il conflitto: il genitore comandava e il figlio, volente o nolente, ubbidiva. Ora invece i genitori apprezzano i figli che prendono posizione e discutono, che “ci sanno fare” verbalmente. Però c’è il rovescio della medaglia: prima o poi i figli finiscono con rispondere, anche male, ai genitori, lasciandoli spesso interdetti da tanta “competenza”. Ed ecco che, nei padri e nelle madri, si riattivano i miti educativi del passato: “Tu devi obbedirmi! Comando io! Non osare rispondermi in quel modo!” Ma i bambini non sono cambiati, piuttosto quella che si è davvero modificata è la modalità dei figli di stare nella relazione con mamma e papà. Concetti come obbedienza, remissività, docilità, correzione, creano aspettative genitoriali che non funzionano più, e attivano meccanismi di muro contro muro inefficaci. Non si tratta di far vincere o perdere i figli o le figlie, non è una gara.

La colpa è anche imputabile al cambio di impostazione educativa? Dal fatto che si è passati da una rigida e autoritaria, come quella dei nostri nonni, a una fin troppo morbida, dove prevale l’accudimento sull’educazione?

Io non credo che l’aumento della conflittualità tra genitori e figli si possa attribuire al cambio di impostazione educativa. I conflitti c’erano anche prima e non certo di meno. Solo che quando l’educazione era rigida e autoritaria non si potevano esprimere, mentre ora i figli vivono una relazione di maggiore confidenzialità con i genitori e quindi la conflittualità si manifesta. Il problema dell’educazione morbida dei nostri giorni non sta nell’aumentare i conflitti, ma nel non essere “educazione”. È prendersi cura; è soddisfare tutti i bisogni, anche quelli non ancora espressi; è servizievolezza; è un cercare di inseguire un ideale di felicità e armonia familiare che non c’è mai stato e non può darsi e che quindi risulta frustrante. Il compito dei genitori è invece fare diventare i figli autonomi, capaci di stare al mondo, di relazionarsi con gli altri. E in questo compito il conflitto è un elemento inevitabile, che bisogna imparare a gestire bene.

La sua proposta è quella di trasformarsi da genitore emotivo a genitore educativo. Quali sono le differenze tra queste due tipologie?
L’educazione è una questione di organizzazione. Il genitore emotivo basa il proprio ruolo sulla verifica degli stati emotivi propri e del figlio, agisce spontaneamente sulla base del momento, cerca la complicità, convinto che i figli basti amarli e il resto viene da sé. Il bambino di 5 anni piange tutte le sere disperato perché vuole dormire nel lettone e i genitori in preda all’ansia e alla stanchezza acconsentono. Da un lato non ce la fanno più, e questo può scatenare il peggio: urla, scene isteriche, litigi tra mamma e papà, anche sculacciate. Dall’altro non riescono a superare l’ansia e il timore che il proprio bambino soffra davvero per qualcosa, stia male, si senta solo o abbandonato e quindi non riescono a uscire dal meccanismo di cui si sono resi prigionieri. Il genitore educativo invece sa che, dopo i 3, 4 anni, ai bambini va letteralmente “proibito” l’accesso al lettone: è uno spazio di mamma e papà, il talamo coniugale. Non farli dormire nel lettone, non significa non amarli, ma riconoscere che tra genitori e figli c’è una distanza, e che questa è garanzia di serenità, dà sicurezza ai bambini. Quindi si organizza: stabilisce un’ora per andare a letto, un rito prima della nanna, una modalità di agire in caso di crisi. È in grado di individuare insieme al partner quelle mosse giuste che rassicurano il bambino e gli consentono di crescere.

Come si fa a diventare un genitore educativo?
Ci si fa delle domande. Si osserva quello che accade e si cerca di individuare, insieme all’altro genitore quando questo è possibile, qual è l’effettivo bisogno del proprio figlio e della propria figlia e la strategia da utilizzare. Le chiavi di volta sono l’organizzazione e la coesione: rendersi conto che per aiutare i nostri figli a diventare grandi, in questi tempi così complessi e veloci, non è possibile affidarsi al caso o all’emozione del momento, e che occorre procedere insieme. Bisogna prepararsi. Il consiglio che do spesso ai genitori è: dedicate del tempo a parlare fra voi due dell’educazione dei vostri figli. Quali sono le regole che diamo in famiglia? Nostro figlio, nostra figlia, le ha chiare? Come possiamo aiutarlo a superare questa paura? Come possiamo sostenere il suo desiderio di autonomia senza esporlo a situazioni che non sarebbe in grado si gestire da solo? Cosa è importante per lui alla sua età? Cosa lo può aiutare a crescere? È inutile scandalizzarsi e invocare i bei tempi andati di fronte alle reazioni oppositive, ai capricci, alle bugie, alla bulimia di desideri e emozioni, ai comportamenti sbagliati. I bambini e i ragazzi fanno il loro lavoro: diventano grandi. Il compito dei genitori è aiutarli e accompagnarli in questo percorso.

La madre che ruolo deve assumere?
Il ruolo materno, dal punto di vista storico, culturale, antropologico non è cambiato molto: nonostante l’emancipazione femminile, che ha segnato un passaggio storico decisivo, la mamma, continua a essere quella figura protettiva che si occupa dell’accudimento. Il suo ruolo è innanzitutto biologico: porta nella pancia per nove mesi il proprio bimbo o la propria bimba; sente una spinta naturale ad occuparsene, a tutelarlo, a fare in modo che sopravviva, specialmente nel primo anno di vita in cui c’è un bisogno particolare. Il primo, e in parte anche il secondo anno di vita richiedono una dedizione materna assoluta: è il momento dell’attaccamento primario che crea le basi della fiducia in se stessi. Poi la situazione cambia: occorre cominciare a mettere dei paletti e delle regole. Ma la mamma resta colei che svolge principalmente un compito di cura. Certamente le madri possono trovarsi in difficoltà rispetto al proprio ruolo, ma storicamente questo aspetto c’è sempre stato, non si è modificato di molto.

E il padre?
La vera crisi educativa dei nostri giorni è una crisi del ruolo paterno. Quando parlo di paterno educativo intendo un insieme di comportamenti che non sono necessariamente legati alla figura del padre. Il ruolo paterno esprime la giusta distanza dai figli, le regole necessarie e chiare, lo slancio vitale, l’assunzione del rischio e del coraggio come elementi fondamentali per crescere: è imprescindibile, ma nei casi in cui il padre sia proprio assente il suo ruolo può essere assunto anche da figure femminili. Non sento la nostalgia di un paterno tutto d’un pezzo, severo, indiscutibile, spesso comunque assente. Però occorre un padre che faccia da sponda, normativo ma allo stesso tempo vitale. Un modello, necessariamente imperfetto, di come si può affrontare l’incertezza, il rischio, le difficoltà dell’esistenza con coraggio, esprimendo tutte le proprie potenzialità e risorse. È una nuova figura di padre, forse ancora inedita, ma su cui si giocano molte delle sfide educative dei nostri giorni.

Entriamo nel vivo del tema del conflitto. Come nasce quando si ha un figlio o una figlia che sono ancora piccoli?
Mi capita di incontrare genitori che sostengono di litigare con i propri figli di 1 o 2 anni. Chiariamo subito un aspetto: i conflitti con i neonati, o con i bambini piccoli, non esistono. Qui si gioca un concetto molto importante che tratto nel mio libro: esistono dei basilari educativi, cioè degli step di crescita, che individuano competenze e autonomie e che è importante che i genitori conoscano. I bambini, almeno fino circa ai 9 anni, non vogliono litigare con i propri genitori, hanno una modalità di pensiero peculiare diversa da quella adulta, e quello a cui ambiscono è adeguarsi alle richieste e alle aspettative di mamma e papà. In questo senso i conflitti con i bambini durante l’infanzia nascono sempre e soprattutto da una confusione interna al bambino, che non riceve input abbastanza semplici e chiari su quello che il genitore si aspetta da lui.

Come si gestisce al meglio un conflitto quando sono bimbi?
Con le consuetudini, con le regole, la ritualità, la coesione. È inutile discutere, cercare di spiegare, argomentare, provare a convincere. Bastano piuttosto alcuni messaggi precisi, chiari, adeguati all’età psicoevolutiva del bambino che ci troviamo di fronte. È insensato pensare che se spiego tante volte a un bambino di 2 anni che non deve guardare troppa Tv prima o poi lo capirà e smetterà di fare i capricci. È meglio una regola precisa, sostenibile e definita da entrambi i genitori. Come è sbagliato coinvolgere i bambini più grandi in decisioni familiari che competono all’adulto, magari nella speranza di evitare così capricci e sceneggiate: in realtà spesso quello che si ottiene è insicurezza, ansia e quindi l’effetto opposto.

E se il bambino è un tiranno?
Occorre evitare tutti quei comportamenti che si basano sulla vicinanza emotiva e sulla sudditanza: come la servizievolezza, cioè il sostituirsi al bambino, alla bambina, anche quando possono fare da soli; oppure la continua assistenza nel tentativo di prevenire tutte le possibili fatiche o difficoltà ai nostri figli. Mi hanno raccontato di un bambino così abituato a essere seguito in tutto dai genitori che, quando alla scuola dell’infanzia le maestre gli hanno detto: “Adesso vai a lavarti le mani”, si è rifiutato e non ha più fatto niente per tutto il giorno. Se i genitori si pongono in una posizione di insicurezza e debolezza, i bambini finiscono inevitabilmente per assumere il comando della situazione. Ma a loro questo ruolo non piace, è molto faticoso e produce sofferenza. Bisogna ristabilire il giusto equilibrio, e mamma e papà devono recuperare il loro ruolo educativo.

Quando finisce la pazienza, spesso può scappare uno schiaffo. Secondo l’ultimo rapporto redatto da Ipsos per Save the Children dal titolo “I metodi educativi e il ricorso a punizioni fisiche”, più di un quarto dei genitori italiani lo utilizza ancora.
Le punizioni, la coercizione, le urla, i metodi educativi violenti e non solo fisici, sono il retaggio del passato con cui inevitabilmente dobbiamo fare i conti. Appartengono spesso alla nostra storia educativa e la maggior parte dei genitori ormai non li ritiene efficaci, salvo poi metterli in atto sotto l’effetto dell’emotività o della stanchezza. Non so più cosa fare? Ecco che si attivano in me, quasi involontariamente, comportamenti legati spesso alla mia infanzia, all’educazione che ho ricevuto. Sarebbe importante per ogni mamma e papà fermarsi a riflettere su questi aspetti. Comunque, al di là del lavoro su se stessi, i genitori devono imparare a prendere tempo. È meglio dare un taglio alla situazione (“Ne parliamo dopo, ora sono troppo arrabbiato. Ne parlo con tuo padre poi vedremo”), che lasciarsi trascinare in un crescendo emotivo da cui poi, facilmente, nessuno ne uscirà bene.

Se il conflitto non è roba da bambini, per gli adolescenti sembra essere funzionale alla crescita. In che modo e perché?
La crescita comporta inevitabilmente un processo di individuazione: ogni bambino man mano che diventa preadolescente prima, e adolescente poi, ha bisogno di distaccarsi da quelle figure che sono state fondamentali per lui e testare le proprie capacità e risorse: mettersi in gioco, sperimentare l’autonomia, imparare a cavarsela. Da questo punto di vista il conflitto è fisiologico e nasce dal processo di differenziazione. Il problema si pone piuttosto quando un ragazzo o una ragazza non trovano nessuno con cui litigare. Io dico sempre: meglio che questa casa sia diventata una sorta di albergo, piuttosto che il luogo dove si incontrano solo figure adulte compiacenti e amichevoli. C’è bisogno di qualcuno che si contrapponga e che, come ogni albergo che si rispetti, stabilisca, nell’ascolto e nella negoziazione, quali sono le regole della convivenza.

Può dirci qualche tecnica educativa per gestire le litigate con un preadolescente?
Oggi la preadolescenza è diventata un’età difficile e anche particolarmente conflittuale, internamente e con i genitori, perché è sostanzialmente l’unica vera età di passaggio, di transizione dall’infanzia a qualcos’altro. I bambini subiscono l’effetto di una precocizzazione imposta dal consumismo e dal marketing, e allo stesso tempo sono stati più accuditi nell’infanzia e quindi si trovano impreparati di fronte a tutti i cambiamenti interiori ed esteriori che si trovano ad affrontare. Le strategie che suggerisco nel libro sono diverse, dal silenzio attivo, che comporta la capacità genitoriale di porre una distanza, alla tecnica del gatto: io sono qui e ti aspetto. Indubbiamente in questa fase psicoevolutiva il padre gioca un ruolo determinante, e ritengo fondamentale, a partire dagli 11 anni, attuare quella che ho chiamato “convergenza educativa sul padre”. Se prima il front office educativo era gestito prevalentemente dalla mamma, adesso è il momento che sia il padre ad affrontare le situazioni, a negoziare le regole e le scelte educative: anche se non è fisicamente presente è a lui che occorre fare riferimento se si vuole essere più efficaci.

E con un adolescente?
Imparare a litigare bene. Questo è il messaggio principale del mio libro. Il conflitto può essere un’occasione preziosa di crescita personale e di evoluzione relazionale per tutti, grandi e piccoli. Noi cresciamo insieme ai nostri figli: se vogliamo che il nostro rapporto con loro si sviluppi sulle basi della fiducia reciproca, dell’affetto, del rispetto delle rispettive individualità, dovremo imparare ad affrontare efficacemente i momenti di crisi, di cambiamento, le normali fasi della trasformazione reciproca. Le relazioni vitali sono sempre conflittuali. Imparare a litigare bene con i nostri figli li aiuterà a diventare uomini e donne competenti, in grado di affrontare con successo le sfide e la complessità del futuro che ci attende.